Jazzmandoit e altre storie, raccontate direttamente da Kriss Corradetti

Con grande piacere diamo il benvenuto a Kriss Corradetti, artista poliedrico che sta raccogliendo consensi crescenti nel pubblico italiano. Recentemente impegnato nella promozione del lavoro Jazzmandoit, pubblichiamo con gratitudine l’intervista a Kriss Corradetti, onorati per il suo tempo e la cortesia riservataci! Apprenderemo curiosità, la ricca storia e la vita, Kriss Corradetti condividerà quelle che sono le collaborazioni, musicali e artistiche, le esperienze, e i progetti futuri. Ma largo ai convenevoli, diamo un caloroso benvenuto a Kriss Corradetti!

Com’è nata tua la passione per la musica?

Posso affermare di essere nato con la musica, mio padre era un tastierista amatoriale con un discreto passato di musica dal vivo in una storica band del territorio Ascolano e, sebbene alla mia nascita praticamente non suonasse più regolarmente dal vivo, a casa gli ascolti di vinili e musicassette erano il passatempo abituale dei pomeriggi in famiglia. Sono cresciuto con il rock degli anni ’70, ma anche molta canzone d’autore italiana ed internazionale e sprazzi di jazz: da Santana a Claudio Lolli, passando per John McLaughlin e John Coltrane. Poi quando avevo circa nove anni mia madre vinse una chitarra classica “da battaglia” ad una lotteria di paese, e di lì a poco iniziai a provare sullo strumento le canzoni che sentivo, per come ci riuscivo all’inizio e poi sempre meglio, grazie anche alle prime lezioni di una giovane zia che vedevo di tanto in tanto e suonava la chitarra.

Ad undici anni feci la mia prima esibizione pubblica alle scuole medie suonando e cantando “Happy Xmas” di John Lennon. Da quell’età in poi suonare era la costante di ogni giornata dopo i compiti, passavo ore a rifare i brani che ascoltavo dai vinili, in particolare dei Dire Straits, vero amore viscerale che mi ha accompagnato fino alla maturità. Mi vestivo addirittura come Mark Knopfler mentre suonavo la mia prima Fender Stratocaster, che mi regalò mio padre a quattordici anni, anche se il mio pubblico era al massimo mia madre nella mia camera da ragazzo.

Ho passato molti anni a studiare da autodidatta, al Liceo Classico formai la mia prima band con cui suonavamo miei brani originali, spesso scritti insieme agli altri membri del gruppo, poi ad un certo punto la passione fu talmente travolgente da portarmi a sperimentare nuovi generi e lì capii che dovevo mettermi a studiare seriamente. Così iniziai il mio percorso di studi che partì dal CPM di Milano per passare attraverso seminari di Jazz nelle maggiori città italiane e finire poi con il Conservatorio a Pescara, dove mi sono diplomato in Composizione Pop-rock.

Usa tre aggettivi (e perchè) per descrivere “Kriss Corradetti” e il suo personaggio,…

Folle: ho sempre avuto un pizzico di sana “follia” che mi ha permesso di uscire dagli schemi e, seppur spesso con fatica, trovare la mia strada al di fuori di sentieri già tracciati.

Onesto: non posso fare a meno di cercare la verità, in quello che faccio, nelle scelte, anche quotidiane. Non ho mai sopportato l’imposizione senza motivo, devo capire il perché delle cose e scegliere mantenendomi sempre onesto nei miei confronti e nei confronti di chi mi sta accanto.

Testardo: difficilmente mollo la presa, magari sono lento, ci metto anni per prendere il coraggio e passare all’azione (e l’esperienza del disco lo dimostra) ma quando ho un’idea che mi conquista non riesco a non seguirla. Ad esempio in passato ho provato a “smettere” di fare il musicista, nelle difficoltà incontrate nel tempo a volte ho pensato che stavo sbagliando strada, ma poi la voglia di fare ancora un passo in avanti e la convinzione che potevo fare di meglio mi hanno portato ad andare oltre i miei dubbi ed a seguire con testardaggine quella che sento come la mia vocazione.

Come è stato concepito il lavoro Jazzmandoit?

Questo album è la conseguenza di un percorso di studio e scoperta dello strumento in primis, il mandolino, e del mondo che gli ruota attorno, sulla base di un senso di ingiustizia dovuto a come lo strumento principe della tradizione italiana sia caduto nell’oblio della cultura popolare del nostro Paese. La sua vitalità è dimostrata da quanto invece in altre aree geografiche lo strumento e le sue musiche siano ancora apprezzate e facciano parte della produzione anche contemporanea. Penso soprattutto agli Stati Uniti, al Brasile, al Giappone, all’Irlanda, ma anche a molte altre realtà. Mi colpisce anche molto vedere come, ad esempio nel vicino medio oriente, la musica tradizionale dei vari posti sia presente e riceva un trattamento di pari dignità rispetto alle esperienze musicali più standardizzate del mercato, trovando spesso felici sintesi tra tradizione e modernità. Il fatto che qui in Italia ciò non succeda e che a farne le spese sia stato soprattutto il mandolino, mi ha spinto a cercare di trovare un connubio tra la musica che ho ascoltato e suonato sempre (jazz, blues, soul, latin) e la nostra tradizione melodica internazionalmente apprezzata, e nel fare questo mi sono innamorato della voce di questo meraviglioso strumento musicale e della sua capacità di prestarsi a tanti contesti musicali, che vanno molto oltre gli ambiti culturali in cui da noi lo percepiamo come possibile, ossia la musica napoletana e quella classica, quest’ultima tra l’altro ancor più sconosciuta ai più.

Dal 2020 ho aperto un canale YouTube, che si chiama Mandolino Jazz Italia (https://www.youtube.com/jazzmandoit) in cui ho iniziato a pubblicare video didattici dedicati al mandolino nel jazz, e questo disco era il passo successivo per sancire ufficialmente anche qui da noi che col mandolino si può fare ancora tantissimo.

Ci sono artisti straordinari in Italia che portano la voce dello strumento su palchi internazionali e che da tempo già esprimono questa maturità e versatilità del mandolino, penso soprattutto a Carlo Aonzo, vero guru del mandolino italiano, Lino Muoio, eccellente mandolinista blues, Mimmo Epifani, mandolinista che nella “world music” sta pubblicando lavori di respiro internazionale apprezzatissimi. Tuttavia sembra che Jazzmandoit sia il primo disco ufficiale di mandolino jazz pubblicato in Italia, e se non sarò smentito questa per me sarebbe davvero una grandissima soddisfazione.

Intanto sono già al lavoro per il prossimo disco che intendo pubblicare entro l’estate del 2024.

In salita o in discesa. I percorsi artistici si sviluppano sempre tra mille peripezie, vuoi raccontarcele?

Sicuramente in salita per molto tempo direi. Quando mi accorsi che quella della musica non era solo una passione ma poteva diventare la mia attività a tempo pieno, ero a Firenze e frequentavo la facoltà di Architettura. Le lezioni all’università cominciarono a diventare sempre meno interessanti per me, o almeno non abbastanza da occupare i miei pensieri e le mie intenzioni tutto il giorno come lo facevano i brani blues di Leadbelly e di Son House che allora suonavo, così decisi di trasferirmi a Milano per studiare chitarra al CPM, la celebre scuola di Franco Mussida. Passavo dalle otto alle dieci ore al giorno a studiare, mi sentivo “in ritardo” per via della mia età non giovanissima, ed in più la mia timidezza non mi aiutava di certo nel cercarmi occasioni di lavoro. Riuscii finalmente ad avere un primo contratto win un villaggio Ventaclub come musicista-animatore, poi iniziai a suonare in piccole situazioni milanesi, spesso facendo gavetta e pagato poco o a volte niente.

Ad un certo punto, visto che non arrivava la grande svolta, pensai che forse avevo sbagliato strada e decisi di tornare nella mia città natale, S. Benedetto del Tronto nelle Marche, ma paradossalmente lì cominciarono ad accadere cose. Le scuole mi chiamavano per insegnare, iniziai al contempo a suonare in formazioni locali di jazz, blues e soul, e continuai a studiare ed a formarmi (quella per la formazione continua è forse la mia vera passione, quasi una dipendenza!). Nel frattempo misi su famiglia ed affrontai il Conservatorio mentre mio figlio era molto piccolo. Ricordo che frequentavo le lezioni di giorno tra un cambio pannolini ed una docenza mia, e poi studiavo e scrivevo musica la notte. Un periodo di studio davvero matto e disperatissimo che però mi portò grandi soddisfazioni, riuscendo a laurearmi sia al triennio che al biennio con il massimo dei voti, lode e menzione speciale.

Dopo il conservatorio iniziai a collaborare con il mio docente di Composizione al Conservatorio di Pescara, il M° Angelo Valori, che è stato una persona fondamentale nella mia formazione ma ancor di più nella mia carriera, permettendomi di partecipare in qualità di arrangiatore a produzioni artistiche di rilievo nazionale con la sua Medit Orchestra, in spettacoli che hanno avuto come ospiti artisti del calibro di Morgan, Malika Ayane, Karima, Serena Brancale, Rita Marcotulli, Mari Pia De Vito.

Ho aperto quindi un mio studio di produzione nella mia città, i “K2U music production” e intorno a questo gravita tutta la mia attività artistica, sia produttiva che dal vivo.

Quali sono le tue influenze artistiche?

Sicuramente una fortissima influenza sulla mia formazione l’hanno avuta quelli che erano i miei ascolti principali durante l’adolescenza, in primis i Dire Straits e poi tutto il mondo del cantautorato italiano: De André, Guccini, De Gregori su tutti. Poi per un lungo periodo ho studiato approfonditamente il blues delle origini: Charlie Patton, Son House, Robert Johnson, Leadbelly, Big Bill Broonzy. Da questa esperienza cominciai ad allargare il panorama dei miei ascolti in una sorta di viaggio in cui ad ogni tappa scoprivo una nuova luce che mi illuminava nuovi panorami musicali, così scoprii il lavoro del musicologo Alan Lomax e le sue registrazioni sul campo condotte nelle regioni italiane al metà degli anni ’50, la musica greca e quella portoghese, le musiche dell’Africa centrale e naturalmente il Jazz. L’artista in questo senso che è stato fondamentale per me come compositore è stato John Coltrane, ancora oggi inesauribile fonte di ricerca ed ispirazione, soprattutto il primo Coltrane. E poi nel mondo chitarristico il nome che catturò maggiormente la mia attenzione è stato quello di Charlie Christian, personaggio essenziale nell’evoluzione delle chitarra nel jazz. In generale sento fortemente l’influenza del mondo Mediterraneo da un lato e di quello delle culture musicali audiotattili dell’America del Nord, in particolare il Blues rurale ed elettrico ed il Jazz, dalle origini fino agli anni ’50.

Quali sono le tue collaborazioni musicali?

Collaboro con il M° Angelo Valori e le sue produzioni musicali, come detto, in qualità di arrangiatore per orchestra, in vari tipi di ensemble. Sto inoltre collaborando da circa un anno con un giovane e talentoso producer di musica Rap, Gian Flores, che produce i dischi dell’etichetta Glory Home Records per artisti come Murubutu, Claver Gold ed altri. Dal vivo collaboro soprattutto con il flautista Giacomo Lelli, che per moltissimi anni è stato al fianco di Goran Kuzminac, e tuttora collabora con Paolo Capodacqua, chitarrista già al fianco di Claudio Lolli ed apprezzatissimo cantautore.

Recentemente ho iniziato, in concomitanza della produzione del disco Jazzmandoit, la collaborazione con Emanuele Di Teodoro, bravissimo bassista e contrabbassista teramano, e Massimo Manzi, vera icona del panorama jazz nazionale.

Quali sono i contenuti che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?

Quello che cerco è un modo per ritrovare una “via italiana” al fare musica, intesa come produzione autentica che sappia combinare le peculiarità della nostra tradizione prestigiosa, la sua importanza nel panorama della storia musicale Europea e Mediterranea, con le istanze dei linguaggi più recenti. L’altro aspetto per me cruciale è che la mia musica faccia stare bene chi la ascolta. Per quanto molte espressioni artistiche mi interessino molto come ambito di studio e di ricerca, non posso fare a meno di concepire il fare musica come un dialogo tra musicista ed ascoltatore, e dunque ci deve essere equilibrio tra il messaggio ed il racconto che il musicista offre, anche se non necessariamente già noto al suo pubblico, ed il benessere e la capacità di recepire il messaggio da parte dello stesso. La musica deve avere un ruolo educativo, deve far riflettere, deve far sognare, deve far crescere chi la ascolta, è troppo facile rinchiudersi nel proprio mondo e non considerare che ciò che si scrive e si suona poi verrà ascoltato.

Per questo ho iniziato a suonare ad esempio con gli strumenti intonati a 432Hz invece dello standard a 440. Noi che facciamo musica non dobbiamo mai dimenticare che siamo i “sacerdoti” divulgatori del messaggio più antico: il suono. Quello che cerco di fare è esserne sempre più consapevole e degno dell’incarico che la vita mi ha portato.

Parliamo delle tue pregiate esperienze di pubblicazioni, live, concerti o concorsi?

Ho partecipato alla produzione, in qualità di arrangiatore, di importanti spettacoli dal vivo in cui la Medit Orchestra del M° Angelo Valori ha ospitato Morgan, Malika Ayane, Maria Pia De Vito, Rita Marcotulli (proprio in questi giorni sto scrivendo un arrangiamento per archi per un suo bellissimo brano che verrà registrato in una imminente produzione discografica), Serena Brancale ed altri artisti di rilevanza nazionale. Nell’ambito di questo progetto ho potuto arrangiare anche per l’orchestra di Sanremo (con Morgan e Malika Ayane come ospiti), ed ascoltare i miei arrangiamenti eseguiti in importanti festival nazionali come ad esempio con Serena Brancale a Pescara Jazz, o Maria Pio De Vito con l’Orchestra della Magna Grecia.

Quando ero un giovane “bluesman” ebbi il piacere e l’onore di aprire un concerto di John Mayall al Teatro Diners della Luna a Milano, grazie a Fabio Treves, celebre armonicista italiano, che mi notò e mi offrì questa occasione. Sempre a Fabio Treves sono molto grato perché trasmise più volte miei brani sulle emittenti radiofoniche con cui ha collaborato, in primis Radio Rock FM e Lifegate Radio, e mi ospitò anche dal vivo anni fa in una su trasmissione che si chiamava Blues Express su Radio Rock FM appunto.

Per quanto riguarda poi le pubblicazioni, ho all’attivo tre miei dischi pubblicati con l’etichetta PlayCab, “Si va dove di va” 2021 e “The Wandering Seeker” 2022, entrambi album di canzoni, il secondo in particolare con una ricerca sulla corrispondenza tra suono e colore come base compositiva. Ho poi collaborato in qualità di strumentista alla colonna sonora del film Deserted di Ashley Avis (2016) composta dal compositore italiano Luigi Pulcini. Ho composto io stesso la musica per diversi documentari e spot commerciali, con distribuzione nazionale ed estera.

Recentemente, nell’ambito della collaborazione con il producer Gian Flores, ho suonato come chitarrista e bassista in brani di artisti della scena rap italiana, in particolare nella deluxe Edition de “La donna invisibile” di Murubutu (dove ho suonato anche l’Oud arabo) e nel disco “8spray” di File Toy.

Cosa ne pensi della scena musicale italiana? E cosa cambieresti/miglioreresti?

Penso che la scena musica musicale italiana sia sempre troppo “ostaggio” di influenze estere e che dovremmo avere più il coraggio di riprenderla in mano e proporre delle soluzioni sonore e compositive autentiche, come faceva Ennio Morricone ai tempi del suo lavoro come arrangiatore nella RCA ad esempio. In Italia tendiamo ad andare avanti per mode, e la scena viene costantemente occupata quasi esclusivamente dal “trend” del momento, con un pubblico molto passivo e tendenzialmente poco preparato.

Quello che cambierei è la diffusione dell’educazione della cultura e della pratica musicale nelle scuole, che è la base per ricostruire una capacità critica nell’ascoltatore, e di riflesso la varietà dell’offerta musicale da parte del mondo della produzione. Fare e nutrire la cultura è sempre la risposta migliore per combattere l’appiattimento e la noia di una scena che sembra ripetere solo cliché presi in prestito da qualcun altro.

Nel nostro Paese c’è un grado di alfabetizzazione musicale bassissimo, molte persone ancora fanno fatica a riconoscere un sax da una tromba, un basso da una chitarra, e di conseguenza non si sviluppa un interesse vivo e critico nell’ascolto che porterebbe di conseguenza maggiore libertà e coraggio di sperimentare linguaggi musicali autentici. In realtà la scena musicale di per sé è ricchissima, abbiamo artisti eccellenti in ogni ambito stilistico, il problema è che la stragrande maggioranza di questi combatte per la sopravvivenza in un panorama di totale indifferenza del grande pubblico e spesso anche dei media, e rimane sconosciuto ai più.


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